Il mito del capitale umano

K UMANO

Sempre più spesso oggi si sente parlare di capitale umano. Di cosa si tratta? Il capitale umano sarebbe rappresentato da tutte le conoscenze e abilità che un individuo riesce ad utilizzare produttivamente, e che di conseguenza sono in grado di garantire un ritorno economico sotto forma di redditi futuri maggiori. Tale capitale sarebbe il risultato di una scelta razionale che l’individuo compie al fine di massimizzare la propria utilità, nel corso della vita. Chi investe in capitale umano dovrà ritardare il proprio ingresso nel mercato del lavoro, al fine di concludere il percorso scolastico, ed accettare almeno inizialmente redditi inferiori ai propri coetanei che hanno deciso di offrirsi invece sul mercato appena raggiunta l’età lavorativa. Tuttavia, nel corso degli anni, i salari di chi ha investito in capitale umano cresceranno fino a raggiungere e poi superare il livello di salario di chi non possiede capitale umano, o ne possiede in misura inferiore. Sarà quindi il mercato a garantire la giusta retribuzione per il lavoratore: da qui il via libera alla contrattazione privata. Difatti, sarebbe solo attraverso la contrattazione privata che si renderebbe giustizia alle differenti capacità dei lavoratori. La teoria del capitale umano è il mito fondativo della meritocrazia, nonché dell’affermazione dell’individuo. Investire in sé stessi per essere padroni del proprio destino, scimmiottando l’antico motto faber est suae quisque fortunae (‘ciascuno è artefice della propria sorte’).

In realtà appare poco realistico spiegare la redistribuzione della ricchezza prodotta da una società esclusivamente attraverso le abilità e conoscenze raggiunte attraverso scelte razionali individuali. La distribuzione del reddito ha infatti carattere eminentemente storico-sociale ed è legata in primo luogo ai rapporti di forza tra le classi sociali e, in secondo luogo a circostanze mutevoli non necessariamente legate alle capacità individuali. La teoria del capitale umano ignora del tutto il ruolo della contrattazione tra le parti sociali. Sembra infatti difficile negare che la forza contrattuale dell’imprenditore capitalista risulti superiore a quella del singolo lavoratore, e che dunque la presenza di un sindacato di categoria in un determinato settore possa garantire, attraverso la contrattazione collettiva, saggi di salario più elevati rispetto ad una situazione di contrattazione privata individuale. Il colloquio tra il megadirettore galattico e Fantozzi ne rappresenta, in due soli minuti, una lucidissima analisi. “Che differenza c’è tra me e lei?” è la domanda che il megadirettore rivolge al semplice lavoratore, per poi continuare “Io la penso esattamente come lei”. Al che Fantozzi meravigliato risponde: “Ma, mi scusi, sire.. non mi vorrà dire che lei è, scusi il termine sa, comunista?” Tuoni e lampi. La disparità tra l’imprenditore e il lavoratore è tutta concentrata nell’ultima frase del megadirettore: “Posso aspettare, io.”

Come affermava già Adam Smith, autorevole economista inglese del XVIII secolo, un imprenditore potrebbe continuare a vivere per un periodo di tempo molto più lungo rispetto ad un lavoratore, nel caso in cui la produzione venisse fermata a causa delle rivendicazioni salariali. Come fa un lavoratore senza lavoro a vivere? La differenza sta nella ricchezza accumulata dall’imprenditore, il capitale appunto. Forzando un po’ i termini, per descrivere le particolari condizioni del mercato del lavoro si potrebbe pensare ad un mercante che vende l’acqua ad un assetato nel deserto. Per quanto l’assetato possa contrattare il prezzo dell’acqua, alla fine dovrà accettare le condizioni limite che gli permettano di restare in vita. È senz’altro bello credere nell’unicità della persona, ma quando si parla di lavoro ognuno di noi è funzionale all’interno del processo produttivo e quindi sostituibile. Cosa vuol dire? Ogni tipologia di lavoro ha dei requisiti di competenze necessarie, e chiunque in possesso di tali requisiti può essere impiegato per svolgere la particolare mansione. L’idea stessa della specializzazione può essere fuorviante. Bisogna distinguere ciò che rappresenta un approfondimento delle conoscenze da ciò che è semplicemente il frutto della divisione del lavoro, ossia della destrutturazione di un processo produttivo in tanti piccoli segmenti. La frammentazione del processo produttivo ha creato lavori che nei periodi precedenti alla rivoluzione industriale erano solamente una sfera specifica della professione esercitata. Ma se consideriamo il famoso esempio di Adam Smith, se i giovani apprendisti erano sicuramente in grado di produrre più chiodi del mastro fabbro, il compenso del lavoro del fabbro era sicuramente maggiore di quello dei giovani operai. Ciò non derivava solamente dalla natura corporativa del mestiere, che garantiva guadagni superiori a quelli realizzabili in condizioni di concorrenza, ma anche dall’estensione della conoscenza sul processo produttivo, che garantiva una forza contrattuale superiore. Dunque se da un lato la specializzazione del lavoro può essere vista come generatrice di lavoratori più abili, dall’altro può determinare una dequalificazione dei lavoratori. Si potrebbe dire che la sostituibilità lega il principio della contrattazione a quello delle conoscenze e delle abilità. Quanto più un lavoratore è sostituibile, da un altro lavoratore o da una macchina, tanto meno egli otterrà in termini di remunerazione dal lavoro svolto, non perché detiene meno capitale umano nel senso attribuito dalla teoria dominante, ma perché detiene meno forza contrattuale nel conflitto per la distribuzione del reddito.

In questo contesto, risulta di fondamentale importanza la presenza del sindacato. Il suo compito è quello di difendere i lavoratori mettendo in comune i loro interessi, impedendo la guerra tra poveri che si sostanzia nella concorrenza al ribasso per la possibilità di avere un lavoro, una situazione aggravata dall’esistenza della disoccupazione: chi è disoccupato è disposto ad offrire il proprio lavoro a remunerazioni più basse, formando quello che Marx chiamava esercito industriale di riserva. La società è divisa in classi, per quanto molti si sforzino a convincerci che non è così. La distribuzione del reddito è conflittuale. La teoria del capitale umano vorrebbe spiegare la redistribuzione secondo principi meritocratici, chi è più bravo ottiene di più. Ma la meritocrazia non può essere spinta all’eccesso, l’esaltazione di questo principio potrebbe portare ad un imbarbarimento della società, dove prevale la legge del più forte. Inoltre, provare a spiegare la redistribuzione secondo i livelli di istruzione è ingannevole. Gli appartenenti alle classi sociali più ricche possono raggiungere i livelli più alti, anche se non dotati di particolare talento. L’istruzione e la formazione hanno un costo che per le classi sociali inferiori spesso risulta insostenibile. Dunque non si è più ricchi perché si è più istruiti, bensì si è più istruiti perché si è più ricchi. In altri termini, si deve distinguere ciò che è causa da ciò che è effetto.

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